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Incontri del Destino

Intorno agli anni ottanta, conobbi Fiorenza Mariotti, artista, attrice, scrittrice, regista di Firenze che era stata invitata come regista esterna dalla compagnia di teatro di figura “Drammatico Vegetale” per la messa in scena di uno spettacolo che fu poi fortunato all’estero ma meno in Italia (ancora restia alla ricerca così avanguardista in quell’ambito); bellissimo! “La tempesta” si chiamava e fu il mio secondo lavoro teatrale come compositore (il primo era stato “sogno di una notte di mezz’estate”, anch’esso tratto da Shakespeare, per viola da gamba, percussioni, flauto, clavicembalo e arpa). Ero già molto attivo anche come arrangiatore e di lì  a poco sarei entrato nel gruppo di un artista italiano che al tempo era primo in classifica. Era Franco Califano, non lo conoscevo neanche! La musica che faceva era molto lontana dai miei gusti ma fu un incontro davvero fortunato per me e oggi gli voglio ancora molto bene e gli sono riconoscente. Ricordo benissimo che, il giorno prima che venissi chiamato per il provino, vidi un suo manifesto in Borgo S. Rocco a Ravenna e mi chiesi chi diavolo fosse quel personaggio. Poi dicono del Caso. Non esiste il caso, ma la Causalità si.

Fiorenza era ospite a casa mia.

Cenammo grazie alle mani sapienti di Mamma Dorina e con mio padre, Una volta terminato ci congedammo per lavorare un poco. Fiorenza aveva viaggiato ed era stanca. 

Nello scantinato dei miei studiavo e componevo. Il mio regno! C’erano tutti i miei strumenti tra i quali spiccava il mio bel pianoforte che ero riuscito ad acquistare grazie all’amico per sempre Franco Vassura che purtroppo ora non c’è. Incontrare Fiorenza fu un colpo forte. Decisivo. Scoprii di aver dato per scontate troppe cose nella musica. Timidamente feci ascoltare a Fiorenza le cassette con i temi che, sulla base del copione, avevo composto, scritto e provinato con il pianoforte registrandoli con un Mangiacassette Recorder rosso fiammante che custodisco ancora. 

Il suo sorriso unico e straordinario mi fece capire che aveva capito: “Bellissime Luciano”, ma anche che voleva qualcosa di diverso e originale per la “sua” Tempesta.

“ma…..io pensavo all’acqua, all’aria, al fuoco, alla terra, alla spirale”. Per parlarmi di musica mi parlò di “altro dalla musica”. Mi vennero le vertigini. 

Nel mio scantinato – studio, non avendo riscaldamento, potevo solo contare su una stufa a gas che a parte le esalazioni da combustione doveva anche avere una qualche perdita perchè ad un certo punto sia Fiorenza che io cominciammo a sentirci confusi e le mie vertigini aumentarono come le sue. Uscimmo all’aria aperta avvolti da una nebbia che pareva solida e che a quel tempo era una costante da ottobre e fino alla primavera. Pian piano, parlando d’altro, ci riprendemmo dalla probabile intossicazione.

Con la testa piena di immagini e di suoni avvolti dal fumo dell’ ultima sigaretta e dalla coltre fumiginosa di Ravenna ridemmo dell’accaduto e decidemmo di rientrare per riposare ed essere così in piedi di buon’ora per iniziare il lavoro. Andai a letto. 

Vidi sul soffitto proiettati come in un film i miei pensieri.

Li potevo leggere tanto erano densi e nitidi: avevo studiato tanto. Avevo in mano la musica, gli strumenti, ma non mi ero mai chiesto cosa fossero.

Nella mia testa sentivo risuonare parole come se le sentissi per la prima volta: il timbro, la natura originale dei suoni e le loro altezze, il loro utilizzo.

All’alba appena nata ero già nel garage-officina di mio padre e nella grande soffitta a cercare corrispondenza tra le mie intuizioni notturne e la materia.

Come in una fabbrica immaginifica e magica allestii uno spettacolo di cose: sbarre di vecchi letti che riproducevano suoni straordinari di campane di varie altezze essendo appesi a ganci per i salami sul soffitto, vecchi cerchioni d’automobile che sarebbero diventati una parete di gong a varia intonazione e poi mastelli d’acqua, grovigli di fili di ferro come arpe eoliche su cui agire, bottiglie intonate e bicchieri, sassi per terra, tubi di metallo o plexiglass di vario diametro (strumenti a fiato di indescrivibile bellezza), oggetti di metallo e zucche oltre a strumenti posti sulla tavola in posizioni diverse da quelle per cui erano stati creati. Fiorenza che, e lo scoprii nel tempo, era una ottima “forchetta” praticamente onnivora e al contrario esatto di me faceva sempre colazione, quando aprì la porta del mio “studio” trasalì. Nulla era più lo stesso della sera prima. 

Anche io ero uno strumento. Ero padre e parte di quel caos armonico e vivo e mi sentivo un tutt’uno con il cassetto di un vecchio comodino assemblato ad una asse di legno, un tempo utilizzata per fare pasta a mano, che aveva una sorta di paletta ad una delle due estremità che in quel momento stavo trasformando in un cordofono usando sia corde da basso che da chitarra che poi ho utilizzato per anni.

Di lì in poi nulla sarebbe stato come prima neanche per me.

Questa volta fu Fiorenza a capire che avevo capito e la sua espressione radiosa fu l’incipit di un lavoro che ci coinvolse e ci impegnò per diverso tempo.

Da lì in poi la musica concreta entrò nella mia vita.

Feci infatti in seguito diversi lavori musicali per alcuni lavori teatrali utilizzando la materia suono come entità viva ed energica e l’organizzazione interna di ogni singolo timbro mi apparve sempre più chiara e stimolante.

Erano da poco usciti i primissimi campionatori e questo mi permise di fare ricerche molto libere negli sfascia carrozze del circondario  e soprattutto in quello di “Ungaro”, un personaggio che definire assurdo è poco e che avendomi “preso in buona” mi permetteva di far qualsiasi cosa all’interno del suo regno. Fracassare vetri d’auto, piegare lamiere o provocare urti o testare e suonare molle, scarti di lamiere o pezzi di cancello e cisterne…….

Registravo tutto e poi in studio riversavo nei campionatori.

Continuavo ad usare la esecuzione su suoni naturali non convenzionali ma cominciavo anche a integrare come poi era stato in parte anche nello spettacolo “ la tempesta” via via più elementi:  sintetizzatori, campionatori e strumenti convenzionali poiché la composizione di tipo convenzionale era un amore che non potevo nè volevo trascurare. Dovevo “solo”dare coerenza al tutto.  I miei temi, dimenticavo di dire, entrarono poi nel lavoro per la Tempesta anche se realizzati in modi del tutto nuovi come ad esempio il brano per bottiglie intonate, flauto traverso (l’amico Beo Mendola) e sintetizzatore.

Contestualmente e sempre grazie a Fiorenza potei partecipare ad un progetto realizzato dal comune di Firenze a villa Fabbricotti e seguirlo regolarmente per un paio d’anni lavorando in laboratorio permanente con i bambini dai 3/4 anni in poi.

Un’esperienza bellissima che partì subito con il passo giusto.

Per l’apertura del Centro Ribes a Villa Fabbricotti (del 400) vicino al Museo Stibbert l’idea fu di realizzare dei percorsi stimolo. Sostanzialmente delle mostre dato l’interesse per la bellezza visiva di Fiorenza. Essi sarebbero dovuti rimanere allestiti per circa due settimane ma dovettero prorogare il tempo di permanenza, dato il successo di afflusso di persone e scuole.

Io, dal canto mio e per la parte dedicata al suono,  progettai un percorso molto articolato a forma di chiocciola dove esplorai tutte le modalita’ e le possibili declinazioni del rapporto con il suono.

Il salone che la contenne era di circa 130 metri quadri. Il percorso fu interamente realizzato con quinte da teatro nere ed illuminato ad arte dagli scenotecnici di Fiorenza.

I visitatori dovevano attraversare un bosco di carta per accedere all’inizio del percorso; un viale da percorrere camminando su diverse superfici: materiali come foglie sabbia, ghiaia, semenze di calibri diversi fruendo quindi del suono in maniera involontaria e in una certa misura passivamente. Al termine del viale si apriva una radura luminosa con grandi vasche trasparenti ripiene d’acqua su vari livelli avvolte da fasci di luce e iridescenze, con le quali interagire: lanciare sassi da lontano, fino ad arrivare ai bordi delle vasche dove personaggi quasi eterei e senza parola oltre ad invitare ad usare le mani in vari modi indicati a gesti o con azioni suggerite, distribuivano cannucce, cannule più o meno grandi con le quali produrre suoni di bolle con suoni diversi e contenitori per realizzare cadute dì acqua dall’alto, da gocce a cascate, oggetti concavi suonati a percussione sul pelo dell’acqua come tamburi appunto ad acqua dai suoni modulati e modulanti e cadute dall’alto di vario tipo. 

Un suono quindi consapevole, voluto, scelto, eseguito.  A quel punto, i visitatori invitati a riprendere 

il viaggio approdavano a isole, celate da un’ansa, fatte di corde di acciaio armonico di vario spessore ma anche di naylon, tese dal soffitto al pavimento in vario modo: parallele o incrociate da suonare pizzicate o con archetto o semplicemente tramite strofinamento dal soffitto.  Un intrico d’arpe indisistinte da attraversare e manipolare.  Subito fuori da quella selva di suoni inebrianti, partiva poi un viale longilineo alle cui pareti erano appese  piccole e medie scatole “magiche” da dove fuoriuscivano corde o meccanismi che ne animavano il contenuto sonoro o con cuffie e suggestioni anche vocali. Ciò che veniva dopo era molto simile a ciò che vide Fiorenza nel mio scantinato e che poi trasferii ancor più maestoso al “Top studio” di Ravenna dove registrammo tra i primi in Italia in digitale le musiche della “Tempesta”pressochè in diretta,  In un’altra radura era quindi un “Luogo Sonoro” (su questa definizione ho poi fatto molta ricerca, molta anche per i bambini) deputato a far vivere in alternanza e in rapida successione la relazione tra l’ascoltatore e chi realizza il “concerto”. A turno i concertisti si susseguivano utilizzando suoni di ogni tipo per chi era al di là. Il finale era di Fiorenza che, con la sua inimitabile vocalità ed espressività, accoglieva i viandanti al centro della chiocciola nella la stanza detta del “silenzio” dove il suono, quasi intruso anche se delicato e realizzato con piatti accarezzati e picchiettati con le dita e suonati con l’archetto arrivava come un brivido nella schiena, emozionanle e al limite estremo tra l’ironia e la paura all’orecchio di ogni singolo visitatore seduto a terra, distante dagli altri. 

Da quel momento il Suono in quanto tale divenne da parte mia oggetto di profonda riflessione e ricerca artistica. Il percorso si sviluppò dapprima in sculture sonore anche grandi ed anche in contesti artistici, per approdare poi a mostre interattive sul suono o alla realizzazione di opere come la pedana sonora (1998) o come una serie di grandi sculture e opere sonore per il parco della scuola media di Russi (Ra). Per ciò che concerne i bambini il lavoro sempre molto umile e il gioco della ricerca sul timbro, che doveva essere fanciullesco, mi portò sempre più vicino a loro. Sviluppai una metodologia tutta mia e su diversi piani che, vista oggi, mi permette di vedere in essa l’antesignana del Tititom. Molti di questi aspetti entreranno in futuro nel Tititom come arricchimento soprattutto per le fasce dei più piccoli e non solo.

In quel tempo iniziò il mio rapporto costante con la formazione degli insegnanti in tanti luoghi anche se tantissimo nella mia Città. Ciò, ha sempre rappresentato l’occasione per testare le mie costanti ricerche ed andare oltre. 

Con tutto il rispetto che ho sempre avuto nei confronti degli Artigiani , essendo io il figlio di un padre come Arnaldo, dalle mani d’oro e una mente pratica formidabile,  ho sempre distinto l’Arte dall’Artigianato, per il fatto che essa non possa viaggiare con bagaglio al seguito, zeppo di ricordi, tecniche o “disegni tecnici” ma scalza e con nulla indosso se non la voglia di viaggiare e scoprire altro, ancora e sempre.
Senza il peso e i favori del passato.

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La storia del Tititom – Capitolo primo

Anno 1998, ore 12,45 circa. 
Sto tornando a casa con Francesco (il mio Piccolo Principe) che ha quattro anni. La campagna è scaldata da un manto basso ma non troppo di nebbia umida in questo novembre.
Facciamo lo stesso gioco ogni giorno al ritorno dalla scuolina.
Vincerà chi conterà più aironi sulle rive e nell’acqua del fiumicello “Fosso Ghiaia”. 
Nessuno sa perchè i rari aironi cinerini che si vedevano alla fine degli anni 80 fossero diventati una vera colonia stanziale tra le tane delle nutrie.
Non vincevo naturalmente mai.

Arrivati a casa mi accinsi a preparare il pasto. Raccolsi come al solito un po di erbe “buone”: tarassaco, foglie di malva e ortica per il sugo del pranzo nel campo dietro casa. Le ultime.
Utilizzai un barattolo di pomodoro che, una volta lavato, avrei gettato nel contenitore apposito dietro casa (che portavo in discarica di tanto in tanto). Francesco guardava un cartone in tv.
Il barattolo era sul grande piano di cottura angolare d’acciaio.
All’improvviso la mia attenzione si focalizzò sul barattolo vuoto.
Mi venne d’istinto di suonare il fondo del barattolo con la forchetta. (il suono di un barattolo di metallo ha una sua intrinseca bellezza).
Poi lo girai con la stessa mano e capii prima ancora di percuotere poi il vuoto del barattolo.
Nonostante le tante soluzioni anche brillanti che avevo trovato ed utilizzato nascondessero tutte al loro interno la verità che vedevo in quel momento non lo avevo mai compreso così chiaramente.
Preparai il pasto e poi sistemai la cucina velocemente. Non potevo pensare ad altro.
Appena potei andai nel retro casa e recuperai un certo numero di barattoli rovistando tra le bottiglie. Li lavai togliendo le etichette armato di paglietta e quindi li asciugai  con cura.
Andai nel mio grande studio, il mio regno. Uno spazio grande che ospitava il mio pianoforte, il cabinotto per la batteria, le apparecchiature per registrare. In quello spazio ho registrato tutti i miei lavori di ricerca e pochissimi lavori per amici o giovani che ritenevo avessero un valore da esprimere (un altro dei miei vizi).   
Un tavolo con due cavalletti ed un pianale ed ero pronto. Cominciai a comporre una prima sequenza di quattro barattoli in fila. Iniziai a suonare i barattoli. Questa:

Es N.1

la provai con altre combinazioni

Es N.2

Avevo visto qualcosa di molto importante di cui stavo assaggiando i contorni.
Stavo vedendo il ritmo con una precisione e una assoluta coincidenza di spazio-tempo come mai lo avevo veduto e sentivo il suono che le varie matrici che via via componevo rendevano in modo autonomo mentre io semplicemente eseguivo una semplice pulsazione. Il “ritmo” più semplice esistente che più tardi avrei chiamato naturale poiché connesso alla vita ed al suo ambiente.
Capii quindi che chiunque fosse stato in grado di esprimere una pulsazione regolare sarebbe stato in grado di produrre un fenomeno perfetto di cui non sapeva nulla, entrarvi in contatto diretto ed esperienziale e quindi evolvere.
Pensai subito a coloro che mi son sempre stati cari. I bambini, anche quelli che hanno avuto meno fortuna.
La prima declinazione e la più ovvia per me fu quella della didattica.
Dal momento che avevo trovato la sorgente avevo ora intenzione di capire come arrivare al lontano mare. Il suono ed il silenzio come le due facce della stessa medaglia. Stesso aspetto, stessa durata, stesso spazio. Le domande cominciavano ad arrivare in gran numero.
Quanti bambini sanno tenere una pulsazione e se si da che età? 
Quanti bambini sanno comprendere che il tempo per andare da A a B è identico (musicalmente) al tempo che trascorre per andare da B ad A e cioè il “da capo”?
Il da capo serve alla ripetizione senza soluzione di continuità del ciclo ritmico poiché è questo ciò che chiamiamo ritmo.
Iniziai a cercare risposte ad ognuna delle domande che sorgevano continuando ad indagare e comincia a capire che ciò che desideravo era ridurre al minor numero possibile le difficoltà.
La mia idea cominciava a prendere forma raccogliendo tutto il mio passato.
La didattica che io vedevo era al servizio del allievo (che aveva sempre il volto di un bambino per me ma che poteva essere chiunque), ed in ogni modo si faceva carico di andare nella direzione delle capacità mostrate dal discente. Il più possibile vicino ad esse.  Il Tititom mi aveva dato l’esempio pratico, anzi concreto. E la prova concreta è la più potente di tutte. Ero già convinto.
Feci una serie di prove con matrici anche con basi matematiche diverse: a tre, a cinque, a sette.
Ne disegnai a Migliaia e di tutti i tipi.  Dipanavo la corona delle possibili combinazioni.
Feci un primo manoscitto con tutte le possibilità con matrici di metro diverso.
Sarebbe stata necessaria una scelta sulla base delle priorità didattiche e il loro ordine e 
dell’estetica degli studi che avrei dovuto sviluppare. Desideravo fosse anche bello e divertente.

In tre

In cinque

In sette

Cosa stavo comprendendo?
Chiunque (su questo temine il lavoro di sperimentazione è iniziato subito e non si è mai fermato proprio per capire quanti esseri umani abbiano una capacità pulsativa e quanti no, in che percentuale di casi la capacità pulsativa non è presente o è danneggiata?
A condizione che ci sia questa capacità pulsativa, chiunque avrebbe ottenuto il rimando sonoro (congruente a quello visivo e a quello motorio) contenuto come informazione nella struttura matriciale. Perfettamente musicale e corretto. Mi si spalancava un oceano davanti agli occhi.
Chiunque, in altri termini, poteva produrre un risultato ritmico complesso(ma non solo ritmico e lo vedremo) senza averne la capacità.

L’idea dello strumento didattico Tititom  era ormai chiaramente presente. 
Non avevo idea di quanto sapessi pochissimo di lui.
Cominciai a sviluppare l’idea di uno strumento che possedesse il massimo di potenziale sinestetico. Allo stimolo visivo e di movimento (con un “direttore” che esegue la “Partitura”), si aggiungeva il suono che la matrice produce. “Così si realizza un aumento esponenziale delle possibili connessioni neuronali che possono attivarsi” pensavo. La sollecitazione del bambino (leggi chiunque) è ai massimi livelli possibili. Già, possibili. Ciò che non sapevo ancora avrebbe moltiplicato il mio stupore.